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“Le parole che contano: La violenza elemento imprescindibile dell’essere umano?”

A tu per tu con Antonia Arslan

Lorenza Leonardi, segretaria della Cisl di Vicenza, incontra Antonia Arsla, scrittrice e saggista italiana di origine armena, laureata in archeologia, è stata professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova e autrice di La masseria delle allodole” (edito da Rizzoli), che ha vinto il Premio Stresa di narrativa e il Premio Campiello; il 23 marzo 2007 è uscito nelle sale il film tratto dall’omonimo romanzo e diretto dai fratelli Taviani.

“Avviamo con questa conversazione assieme ad  Antonia Arslan, nel suo magnifico studio di Padova, una serie di riflessioni sul tema della violenza, per cercare di conoscere meglio e più a fondo ciò che accade nell’animo umano quando prevale l’istinto del sopruso e della forza anziché quello del rispetto e della relazione verso l’altro. Proveremo ad aprire uno scenario di senso attorno al tema della violenza, delle tante forme di violenza che la storia ci ha tramandato e che ancora oggi interpretiamo come possibili, fino ad uccidere delle donne solo per qualche distanza o incomprensione. Cercheremo di farlo attraverso Le parole che contano, quelle di donne sensibili e sapienti, da sempre vicine a questo linguaggio comune, da sempre impegnate e interessate non solo all’affermazione dell’utile ma anche del giusto!

Queste nostre conversazioni saranno regalate ai nostri iscritti, delegati, operatori, uomini e donne, con i quali vorremmo estendere i confini di un sapere migliore e più giusto.”

Lorenza Leonardi.

  

Lorenza: Cara Antonia, aiutaci a capire cosa spinge l’uomo ad essere violento verso l’altro o l’altra, alla luce della tua storia che hai tramandato a noi con i tuoi libri,  attraverso i quali hai raccontato i torti di un popolo colpito  da atroci  ingiustizie  e violenze.

Antonia: La violenza è una componente profonda dell’essere umano, come tante altre emozioni. Ognuno di noi deve fare i conti dentro di sé con il bene ed il male. Perciò affermare che la violenza non esiste, dichiarare che tutti siamo buonissimi dalla culla alla bara non è vero. Io credo che la violenza sia una componente dell’essere umano, una componente profonda, come altre emozioni, come il desiderio di protezione, come il desiderio di amicizia, come le emozioni buone, le emozioni positive o negative. La violenza è un’emozione che abbiamo dentro di noi, perché negarlo? Quando vado nelle scuole io lo dico sempre agli studenti a cui parlo: “non pensate mai che voi non l’avreste mai fatto, voi potevate essere quel turco che ha ucciso l’armeno o quello che l’ha salvato”. Si può essere un giusto o un assassino, con tutte le sfumature in mezzo, dobbiamo scegliere noi da che parte stare.

Io credo che la violenza vada codificata. Pensate ai match sportivi. Pensate al furore che lancia un giocatore di rugby nella sua partita, pensate ad una mischia di rugby, non sono mica lì ad accarezzarsi, lo sapete che adesso fanno partite di rugby anche i ragazzi in carrozzella? I loro educatori, quelli che li assistono, capiscono che cosa hanno dentro, c’è un’energia che va in qualche modo espressa ma che deve essere codificata dentro le regole di comportamento possibile o condannabile, “questo si può fare, questo non si può fare”.

L: Quindi la prima azione da fare è questa, codificare la violenza.

A: Certo, la violenza va prima codificata, poi imbrigliata, controllata e  repressa. Una volta erano le guerre che codificavano la violenza, per secoli è stato così.

Allora io credo fortemente che dobbiamo creare un’alternativa alla guerra, incanalando positivamente l’energia, la potenza di energie e di capacità che c’è nell’essere umano verso le altre persone, perché capiscano di essere equivalenti.

L: Le energie vanno orientate verso altri scopi, magari attraverso l’educazione?

A:  Certo. Sarebbe bellissimo se tornassimo a capire quanto l’educazione “al bello e al buono” (come dicevano i greci) ci forma ad essere cittadini capaci di convivenza serena, di gusto per il bello e di tolleranza per gli altri. Siamo noi che abbiamo separato musica e poesia. Ma se ogni poesia fosse accompagnata dal suo ritmo musicale… sarebbe una cosa fantastica. E poi ci deve essere la certezza della pena… che purtroppo oggi spesso si dimentica.  In Italia c’è tanta gente che esagera. Un giorno un taxista mi dice “tutti questi qua che scrivono sui muri, li metterei al muro…”, ed io: “cosa  intende?” e lui risponde “fucilarli tutti!”

Ecco queste sono follie, idiozie. La punizione va commisurata al danno arrecato: e tuttavia ci deve essere.

 L: A proposito di quello che lei Antonia che scritto nei suoi libri,  raccontando la  violenza che ha colpito il suo popolo, mi viene naturale porle questa domanda: perché un essere umano non riesce a definire il limite, un limite come  confine alla propria azione violenta verso l’altro?

Nei casi di femminicidio e nei brutali fatti di cronaca di questi tempi, perché l’uomo, il compagno, l’altro non riesce a fermarsi, perché non c’è quel limite?

A: E’ un grande problema questo ed è giusta la domanda sul limite. Me lo domando spesso, occupandomi di tragedie molto più grandi anche numericamente. Quando noi pensiamo ad un milione e mezzo di armeni uccisi nel tempo di un’estate oppure a un milione di ruandesi uccisi nel tempo di tre mesi…, allora ci domandiamo, cosa ha permesso all’uomo di passare dalla parola all’atto?  Secondo me, alcuni uomini vengono  persuasi da un’autorità – che in genere è l’autorità istituzionale ma potrebbe essere anche essere un’autorità religiosa – ad uccidere.

Uccidere quella determinata minoranza oppure una  donna, come in  tutti quei casi di abusi nel mondo musulmano, che  sono frequentissimi, perché a priori la donna è inferiore, la donna è per statuto inferiore anche per la persona più affettuosa… dunque se è per statuto inferiore allora tu non hai un limite, non serve il limite, dipende solo dalla tua buona volontà, dalla tua personale bontà. Perché il limite risiede in sé stessi, nella buona volontà, non viene da fuori! E siccome tu puoi fare quello che vuoi, la moglie è tua proprietà come il cane, tu fai al cane e alla moglie quello che vuoi. Pensiamo ad Hitler, alla minoranza Tutsi nel caso del Ruanda, o agli armeni nel caso dell’impero ottomano. Le vittime erano le persone ed i popoli meno importanti,  soggetti disprezzabili, erano  persone che se tu le uccidevi o  maltrattavi non venivi  punito.

La mancanza di punizione fa si che quel limite non c’è più.  Se il limite non c’è più, vuol dire che tutto è affidato alla benevolenza, all’estro e al caso. Ci sono dei casi nella tragedia armena incredibili, ve ne cito due. Il primo si riferisce alla storia di  due commercianti, di cui  uno turco, che vivono nella stessa cittadina, si conoscono, si frequentano. Un giorno l’armeno dice al turco: “ho sentito brutte notizie per noi armeni, tu mi faresti la cortesia, visto che siamo amici, di andare a informarti al municipio? Vai, cerca per favore di capire che cosa bolle in pentola.” L’altro risponde: “vado senz’altro  lo faccio volentieri”.  Sta via 3 – 4 ore, ritorna, chiama l’amico armeno e gli dice: “brutte notizie ti devo dare e questo mi dispiace, mi fa male il cuore per voi che siete stati sempre sudditi fedeli dell’impero, io non capisco, sono ordini dall’alto  però siccome ti voglio bene e siamo vicini da tanti anni, vorrei fare il possibile per voi: adesso vai a casa e cena con i tuoi, domani vengo io ad uccidervi tutti, cosi magari non saranno degli altri a violentare tua moglie, non si sa mai. Io ti assicuro che tua moglie e tua figlia le rispetterò, non le violenterò, le uccido semplicemente, stai sicuro che anche la tua casa la terrò io.”

Questa è una storia vera. Cosa poteva essere successo a quel turco? Gli avevano detto di uccidere e lui ha cercato, nella sua mente, di fare quello che poteva per l’altro, ma ormai ucciderlo era logico. Un’altra storia, questa ancora più triste, ma che fa molto riflettere. Un  ragazzino di un altro paesino vede che arrivano i soldati con gli ordini di eliminazione. Ma in quel caso non deportarono le donne, uccisero subito tutta la famiglia (sai che la tecnica per sterminare la società armena di solito prevedeva di uccidere gli uomini e di deportare le donne, mandandole a morire nel deserto siriano di fame e di sete, perché le donne sono esseri inferiori, non vale la pena di sprecare pallottole). Il ragazzino non viene ucciso come gli altri, viene ferito solo di striscio; dopo mezz’ora si riprende e sente il corpo di  sua madre morta che gli pesa addosso. Allora prova a  svincolarsi dai cadaveri, si alza in piedi, immaginatevi con che emozione, che groviglio di disperazione interiore. In quel momento vede comparire sulla porta uno degli assassini, quello che aveva colpito la madre, che è tornato indietro e si appoggia alla porta. Allora il ragazzino pensa: “è venuto ad uccidere anche me”, e si prepara pensando che così raggiungerà i suoi familiari e saranno tutti insieme, dall’altra parte. Invece l’uomo va verso di lui, lo prende  per il braccio e gli dice: “ragazzino, sei ferito”. Poi lo porta a casa sua, lo cura, gli salva la vita. Dopo 60 anni, questo ragazzo ormai diventato vecchio dice all’intervistatore  “io non ho mai capito, non sono mai riuscito a decidere se dovevo ringraziarlo perché mi aveva salvato la vita o se dovevo odiarlo perché aveva ucciso la mia famiglia.”

 L: Storie tremende…

 A: E’ una storia, e come questa ce ne sono tante altre. Cosa era successo a quell’uomo? Era travolto, non aveva limiti in quel momento, era un lupo (senza offesa per i lupi!), bramoso, pieno di odio… in quel momento era stato caricato,  gli era stato detto che poteva uccidere gli armeni perché erano esseri inferiori. Quando ritorna sul luogo della strage, chissà per quale motivo, è tornato un uomo “Normale”, capace di pietà… D’altronde Hitler parlava degli ebrei come razza inferiore; i “Giovani Turchi” parlavano degli armeni come infedeli, carne da macello; gli Hutu parlavano degli Tutsi come scarafaggi, ricordate?

L: quindi il disprezzo dell’altro…

A: Disprezzo, certo e poi anche una componente che quasi nessuno ricorda, che pochi dicono ed io trovo importantissima: l’avidità, perché si stimola la gente all’avidità di possesso, ad impadronirsi dei beni degli altri.

L: Sai a cosa sto pensando? Questa cosa dell’autorità, nei casi raccontati poco fa, era legata al disprezzo e all’ignoranza di chi ha dato degli ordini per quei massacri. E mi viene in mente di un’intervista  ad un  generale nazista, al quale fu chiesto cosa provasse di fronte all’ordine di uccidere gli ebrei nei campi di sterminio. Domanda a cui lui rispose con grande indifferenza: “erano ordini”!

Come può l’uomo, anche di fronte ad un’autorità,  smettere  di riconoscere il bene dal male?

E per ricollegarsi anche alla questione delle donne, se è vero che l’autorità ha permesso dei massacri, in nome di quale autorità, oggi, si compiono così tanti femminicidi efferati? Qual è l’autorità che permette a molti uomini di andare oltre quel limite ed eseguire  atti violenti, di offesa e di umiliazione?

A: Oggi l’autorità è stata praticamente abolita. Chi lavora nella scuola si trova di fronte a delle sfide incredibili,  ragazzi a cui non è mai stato proibito niente: i genitori abdicano, hanno paura a dire no perché poi – pensano – il bambino li odierà. Io credo ci sia un’incapacità ad assumersi la responsabilità di educare. L’educazione è una cosa delicata e faticosa, che non viene più fatta. Per questo non esiste più l’autorità.

L’altro agente formativo è quello della comunicazione, fatto dai giornali, dalle reti, dalle televisioni, dai media e così via, soggetti orientati a fare perno sull’emotività sfrenata invece che sulle forme di comprensione autentica del reale, di ragionamento, di riflessione. Abbiamo sentito giornalisti che vanno da un padre che ha appena perso la figlia a chiedere, mettendo al pover’uomo un microfono sotto il naso: “l’ha perdonato lei, l’assassino?” Sono delle sciocchezze fuori di misura, e grande è la responsabilità di questi giornali che predicano senza controllo e scrivono qualsiasi cosa.

Io ricordo un  piccolo episodio personale, di parecchi anni fa, quando venne a lavorare da noi, in casa, una ragazza sarda molto carina. Si era sposata molto giovane. Un giorno  arrivò con dei grandi lividi sul collo.  Le chiesi: “sei andata dai carabinieri?”. Lei rispose: “mi hanno detto che non possono fare niente”. L’abbiamo aiutata noi a separarsi, poi a trasferirsi, e per fortuna lui non l’ha più cercata.

L: Ma sono sempre le donne a sbagliare?

A: Una volta mi invitano a Bologna a fare una conferenza sul romanzo rosa. Avevo da poco pubblicato il libro Dame, droga e galline. Il romanzo popolare italiano tra ‘800 e ‘900, e una parte era su quel genere letterario che è il romanzo rosa, dove deve esserci una romantica storia d’amore con molte avventure, ma che deve finire bene. Vado a Bologna  e cosa mi trovo davanti? Le signore che erano iscritte all’associazione nazionale dei partigiani. Robuste signore emiliane, con vigorosi bicipiti, quelle che con una sventola e uno sganassone ti mettevano a terra, e che erano tutte lettrici di romanzi rosa. Queste donne, parlo di trent’anni fa, erano iscritte al partito comunista, facevano le lotte per le donne… ufficialmente! Però, a casa loro, cercavano la fantasia, il romanzo. Perciò parlai loro della  dignità del rosa come genere letterario, tranquillizzandole dai sensi di colpa: “ma io allora non devo vergognarmi se leggo i romanzi di Delly?”, chiedevano. “Ma no, è un divertimento come un altro – risposi – suo marito va a giocare a bocce, lei invece legge romanzi…”

L: Era il bisogno di emozioni anche delle donne impegnate politicamente?

A: Il bisogno di emozioni, anche dentro modelli propositivi, teoricamente all’avanguardia della liberazione femminile, ma in fondo amavano l’idea della storia d’amore, la storia tra il pilota e la principessa…

L: Questo mi fa pensare che oltre all’affermazione di diritti ci sia bisogno di costruire relazioni fondate sul riconoscimento, sulla libertà di  espressione, di  emozioni…

 A: Certo: riconoscere le emozioni per quelle che sono e  accompagnarle, codificarle e gestirle. Contraddire e censurare l’emozione non è cosa che va fatta, secondo me, l’emozione va accompagnata e poi gestita.

L: Dovremo lavorare sull’educazione alle emozioni, codificandole in giuste e non giuste, in positive e negative?

A: Proprio così. Serve un nuovo comando, non più alla violenza o al dominio, ma un comando subliminale che apra all’uomo una corrente di affermazione di sé e delle proprie emozioni attraverso atti di reciprocità, di relazione, di rispetto, di giustizia – e di amore per la bellezza.

Ricominciamo ad insegnare Dante nelle scuole, e fissiamo nella memoria dei ragazzi le sue parole sulla Vergine Madre!

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