Celebriamo l’uomo che lavora e, insieme, il lavoro dell’uomo.
Ma oggi questa nostra festa non è festa “vera”, da vivere con la consueta pienezza, perché siamo pervasi dalla tristezza e annichiliti dalla preoccupazione; perché siamo ancora stretti fra i tentacoli fatali di quella pandemia che ha fatto strage, in un anno, di un’intera generazione, la più esposta e indifesa: gli anziani.
Per questo il Primo maggio non può non interrogarci: un interrogativo necessariamente collettivo, sul tema della cura. Cosa vuole dire, infatti, lavorare in questo tempo? Progettare il futuro in questo tempo? Sperare in questo tempo? Fare ciò, dopo che la sofferenza e la morte sono state, per mesi, coinquiline delle nostre vite e spettri costanti del nostro quotidiano?
In questo periodo lunghissimo, abbiamo cercato di restare vicini ai nostri anziani, alle loro famiglie, contrastando solitudine e isolamento, in una postura di concreta prossimità, tramite l’impegno capillare delle nostre articolazioni.
Come membri della Federazione dei Pensionati, al termine della vita lavorativa, ci siamo ritrovati attivi in un “lavoro volontario” di manutenzione delle relazioni e di attenzione alle persone nella convinzione che sia proprio questo – la prossimità, la solidarietà e la cura – l’approccio salvifico per il Paese, prendendo in contropiede un virus che, viceversa, sembra soffiare sul fuoco dell’egoismo sociale.
E allora, se ricostruire l’Italia vuol dire prendere atto, in primis, della centralità del lavoro, questo significa garantire una concentrazione speciale per il tema del lavoro di cura.
Abbiamo sperimentato che non c’è lavoro senza sicurezza e non c’è sicurezza senza la prospettiva di riformare strutturalmente il Servizio sanitario nazionale. Occorre – vogliamo ribadirlo – un nuovo patto sociale affinché tutti i cittadini, senza discriminazioni economiche, sociali o geografiche, vedano riconosciuto il diritto, come sappiamo costituzionalmente garantito, alla salute.
Ancora: la tragica esperienza vissuta, ci impone di affrontare in modo nuovo e realmente moderno la gestione della non autosufficienza, prospettando una radicale revisione delle strutture residenziali per anziani e disabili. Sostenere e ottimizzare la cura delle persone significa, inoltre, indirizzare cospicui investimenti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza nell’ammodernamento delle strutture, nella ricerca, nel rendere efficiente la medicina territoriale, restituendo al lavoro il ruolo di perno attorno a cui ricostruire un tessuto sociale lacerato e consumato da anni di eccessivo investimento speculativo; “il dono del lavoro è il primo dono dei padri e delle madri ai figli e alle figlie, è il primo patrimonio di una società.” Cosi si è espresso Papa Francesco all’udienza in occasione del Congresso CISL, trovandoci in perfetta sintonia.
Questo Primo maggio, insomma, più che di celebrazione, si pone come momento propulsivo di speranza per un futuro migliore.
E le risorse del Recovery Fund e il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza rappresentano, in effetti, due grandi e concrete opportunità per riaccendere la speranza.
Speranza che, come ci ha ricordato il poeta Vàclav Havel, non è sciocco ottimismo, non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo. La speranza è, viceversa, la certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato.
E ciò che assicura significato, senso e dignità agli uomini e alle donne, al futuro della società italiana è il lavoro.
Viva le lavoratrici, viva i lavoratori!
Viva il Primo maggio!